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La situazione dei diritti umani in Italia PDF Stampa E-mail
Giovedì 17 Luglio 2008 13:52

Tortura, maltrattamenti e responsabilità delle forze di polizia - Anche la XV legislatura ha lasciato immutate le lacune relative all'attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura (CAT): l'Italia resta priva di uno specifico reato di tortura nel codice penale e da più parti sono state autorevolmente segnalate le ricadute di questo inadeguato quadro legale sulla possibilità che le forze di polizia rispondano effettivamente del proprio operato.


Il rischio di impunità è aggravato dalla mancanza di forme di identificazione dei singoli agenti di polizia durante le operazioni di ordine pubblico e dall'assenza di organismi indipendenti di monitoraggio. L'Italia non si è ancora dotata di un'istituzione nazionale di monitoraggio sui diritti umani e di un organismo indipendente di controllo sull'operato della polizia e non ha ancora ratificato il Protocollo opzionale alla CAT, il quale imporrebbe l'adozione di meccanismi di prevenzione.
Questo quadro desolante viene da anni segnalato da Amnesty International (AI) alle autorità competenti e nel corso del 2007 è stato nuovamente oggetto delle raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura.

 

Genova G8 2001: procedimenti in corso

Sono proseguiti i processi per le violenze commesse nel corso del G8 del 2001 da agenti di polizia, personale sanitario e agenti di polizia penitenziaria, denunciate in quei giorni ed emerse successivamente.

A marzo 2007, la Corte europea per i diritti umani ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato per il caso di Carlo Giuliani, che venne colpito a morte da un carabiniere durante le manifestazioni. L'inchiesta in Italia era stata chiusa nel maggio 2003, quando il giudice per le indagini preliminari aveva stabilito di non procedere contro il carabiniere poiché, secondo il giudice, questi aveva sparato per autodifesa e la traiettoria del proiettile era stata deviata da un calcinaccio lanciato da un manifestante.

Nel processo per le violenze contro 93 manifestanti nell'irruzione alla "scuola Diaz" (complesso scolastico Diaz-Pascoli-Pertini) risultano imputati 28 agenti e funzionari di polizia, tra cui Francesco Gratteri, attuale Direttore della direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato e Giovanni Luperi, ora a capo di un dipartimento all'Aisi (ex Sisde). Durante le udienze succedutesi negli ultimi mesi sono emersi elementi scioccanti relativi alle violenze denunciate e sono stati descritti gli effetti delle stesse sulla vita delle vittime. All'udienza del 13 giugno 2007, un funzionario di polizia imputato nel processo, diversamente da quanto dichiarato in precedenza, ha ammesso di aver assistito a gravi violenze perpetrate dagli agenti nel corso dell'irruzione e ha richiamato il ricordo di una ragazza con gravi lesioni alla testa, da lui vista giacere in terra in una pozza di sangue. Il 6 luglio 2007 sono state depositate le registrazioni delle comunicazioni telefoniche tra gli agenti di polizia impegnati nelle operazioni e la centrale operativa del 113. In una di queste, riportata dai media, si sente un'agente di polizia dire: "Ero a caricare le zecche (...) speriamo che muoiano tutti (...) tanto uno è già...1-0 per noi". Altre conversazioni telefoniche fanno riferimento ai feriti durante l'irruzione alla scuola Diaz.

Nel medesimo procedimento si sono verificate irregolarità nella conservazione di prove chiave per l'accertamento di responsabilità delle forze di polizia. All'udienza del 17 gennaio 2007 si è infatti appreso che le bottiglie molotov, portate secondo l'accusa alla scuola Diaz dalla polizia per giustificare gli arresti, erano sparite mentre si trovavano sotto sequestro; alcuni giorni dopo la questura di Genova ha dichiarato che potrebbero essere state distrutte "per errore". Sono inoltre emersi indizi che hanno condotto, nel marzo 2008, alla richiesta di rinvio a giudizio per incitamento alla falsa testimonianza di Gianni De Gennaro, Capo della polizia all'epoca dei fatti. L'udienza preliminare nel corso della quale si deciderà sul rinvio a giudizio inizierà il 16 giugno. Gianni De Gennaro è stato Capo di Gabinetto del ministro dell'Interno Amato ed è stato recentemente nominato Direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (ufficio di coordinamento dei servizi di intelligence).

Nel processo per le violenze nel carcere di Bolzaneto sono imputati 45 tra agenti e funzionari di polizia (incluso l'allora vice Questore di Genova Alessandro Perugini), agenti e funzionari di polizia penitenziaria e medici, per violenze nei confronti degli oltre 250 manifestanti transitati dal carcere in stato d'arresto o di fermo. A marzo 2008 i pubblici ministeri hanno presentato le proprie richieste al giudice, con una significativa requisitoria. Secondo i pubblici ministeri, il trattamento delle persone a Bolzaneto è stato "di oggettiva vessazione nei confronti di tutti i detenuti e per tutto il periodo della loro permanenza presso il sito" e ha violato il divieto di tortura e maltrattamenti previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Oltre alle violenze fisiche, i pubblici ministeri hanno ritenuto offensive della dignità "le costrizioni ad ascoltare o pronunciare o gridare slogan, inni o motivi inneggianti al nazismo ed al fascismo in particolare". Le memorie dei pubblici ministeri hanno segnalato che, in mancanza di un reato specifico nell'ordinamento penale, è difficile ricondurre i fatti che costituirebbero tortura nelle fattispecie ordinarie. I reati contestati agli imputati sono: abuso di autorità contro arrestati o detenuti, abuso d'ufficio, ingiuria, violenza privata, minacce, percosse e lesioni personali (e omissione di referto per i medici). I pubblici ministeri hanno sottolineato l'assoluta necessità di introdurre il reato di tortura nell'ordinamento italiano.

Ad aprile e agosto 2007 il giudice civile ha condannato il ministero dell'Interno a versare rispettivamente 5.000 euro di risarcimento a Marina Spaccini e 18.000 euro a Simona Coda Zabetta, le quali furono picchiate da agenti di polizia mentre manifestavano. Il ministero dell'Interno ha proposto appello contro entrambe le sentenze.

Contrariamente a quanto richiesto da AI al fine di evitare il diffondersi di un clima di impunità, nessuno dei funzionari e agenti imputati nei processi è stato sospeso dal servizio. Diversi di loro sono stati, di fatto, promossi.

I reati con cui sono perseguiti gli agenti di polizia sono soggetti a prescrizione e lo scorrere del tempo porta con sé il forte rischio che i processi si chiudano senza che nessuno venga ritenuto penalmente colpevole, né di fatto punito, per gli atti commessi nel luglio 2001.

Val di Susa 2005: procedimento in corso

Ad agosto 2007 il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta del pubblico ministero di archiviare il procedimento aperto dalle denunce presentate da 20 persone, relative ad atti di violenza da parte delle forze di polizia intervenute in Val di Susa nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2005. In quell'occasione, alcune centinaia di agenti di polizia intervennero per far sgomberare circa 100 persone che manifestavano contro la costruzione di un collegamento ferroviario ad alta velocità. Secondo quanto riferito, i dimostranti furono aggrediti e picchiati, alcuni di essi durante il sonno. Il pubblico ministero aveva chiuso le indagini chiedendo l'archiviazione sulla base dell'affermazione che gli agenti accusati non potessero essere identificati, mentre il giudice ha chiesto un supplemento di indagine.

La morte di Federico Aldrovandi: procedimento in corso

Il 19 ottobre 2007 ha avuto inizio il processo contro quattro agenti di polizia accusati dell'omicidio colposo di Federico Aldrovandi, morto a Ferrara il 25 settembre 2005 dopo essere stato fermato dai quattro agenti. Durante le indagini preliminari, erano spariti e quindi riapparsi campioni di sangue raccolti sul luogo in cui Federico Aldrovandi era morto, mentre sono apparse alterate le registrazioni di telefonate ai servizi di emergenza effettuate la notte del decesso.

La morte di Aldo Bianzino e di Gabriele Sandri

Il 14 ottobre 2007 Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni, è morto nel carcere di Capanne a Perugia, dove era stato condotto in stato d'arresto due giorni prima assieme alla sua compagna. La morte è avvenuta in circostanze oggetto di inchieste giudiziarie. Nel febbraio 2008 il pubblico ministero ha chiesto l'archiviazione del caso, sulla quale si attende il pronunciamento del giudice.
L'11 novembre 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 26 anni, è stato ucciso da un colpo d'arma da fuoco esploso da un agente della polizia stradale, mentre si trovava in uscita da un autogrill in auto con alcuni amici, assieme i quali era diretto a Milano per seguire la partita della sua squadra in trasferta. Sul caso sono in corso indagini da parte della magistratura.

Erosione dei diritti umani nella "guerra al terrore": le scelte dell'Italia

Nel corso del 2007 e della prima metà del 2008 le scelte dell'Italia circa il rispetto dei diritti umani nell'ambito della lotta al terrorismo si sono mosse lungo linee analoghe a quelle percorse negli anni precedenti. La politica del sospetto applicata alle espulsioni e una tenace riluttanza a fare chiarezza sugli abusi commessi in nome della "guerra al terrore" hanno caratterizzato l'approccio delle autorità di governo. In quest'ambito, l'Italia ha anche contribuito a mettere a rischio la tenuta del principio internazionale che impone il divieto assoluto di tortura.

Rendition

Il governo Italiano non ha collaborato pienamente alle indagini degli organismi internazionali che hanno accertato precise responsabilità dell'Italia nelle rendition (trasferimenti illegali di persone da un paese all'altro, generalmente culminanti in arresti arbitrari, sparizioni, detenzione senza processo e tortura).

Tre casi di rendition denunciati da un'indagine del Parlamento europeo chiamano in causa l'Italia: Abu Omar (rapito a Milano nel 2003), Maher Arar (condotto nel 2002 verso la Siria da un volo Cia per Amman con scalo a Ciampino) e Abou El Kassim Britel (cittadino Italiano arrestato in Pakistan nel 2002 e tuttora imprigionato in Marocco). L'indagine, realizzata dalla Commissione temporanea del Parlamento europeo (Tdip), ha condotto il 30 gennaio 2007 alla pubblicazione del rapporto sul "presunto utilizzo di paesi europei da parte della Cia per il trasporto e la detenzione illegali di persone" (relatore: on. Claudio Fava) secondo il quale tra il 2001 e il 2005 gli aerei legati alla CIA hanno fatto scalo almeno 1245 volte nei paesi europei. Il rapporto ha documentato che gli aerei della Cia hanno fatto scalo in Italia 46 volte, toccando 15 aeroporti: Pisa, Roma, Sigonella (Catania), Napoli, Bari, Firenze, Venezia, Palermo, Milano, Brindisi, Cagliari, Catania, Olbia, Genova, Montichiari (Brescia). Le autorità di governo responsabili dei servizi segreti al momento dell'indagine (Governo Prodi: on. Enrico Micheli, allora Sottosegretario alla presidenza del Consiglio e on. Enzo Bianco, allora presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) e quelle del precedente Governo Berlusconi (Gianni Letta, allora Sottosegretario alla presidenza del Consiglio) hanno rifiutato di incontrare la commissione, scelta deplorata dal Parlamento Europeo nella risoluzione del 14 febbraio 2007.

L'8 giugno 2007 l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Pace) ha adottato il secondo rapporto del Senatore Dick Marty sulle "detenzioni segrete e i trasferimenti illegali di detenuti che coinvolgono Stati membri del Consiglio d'Europa". Anche questo documento critica le scelte del governo italiano in merito all'accertamento della verità sul rapimento di Abu Omar.

I casi di Abu Omar, Maher Arar, Abou El Kassim Britel

Le indagini della magistratura italiana e l'avvio del processo sul coinvolgimento di funzionari di intelligence italiani e statunitensi nella rendition di Abu Omar stanno contribuendo a svelare la verità per mezzo della giustizia.

Il 16 febbraio 2007 il giudice Caterina Interlandi, accogliendo la richiesta dei pubblici ministeri Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, ha rinviato a giudizio 26 cittadini Usa per lo più presunti agenti della Cia e 7 funzionari del Sismi per il rapimento dell'imam egiziano Abu Omar, prelevato a Milano il 17 febbraio 2003 e trasferito in Egitto, ove è stato detenuto arbitrariamente e, secondo quanto da lui dichiarato, sottoposto a torture. Tra i funzionari Italiani rinviati a giudizio, Nicolò Pollari e Marco Mancini, rispettivamente direttore e alto funzionario del Sismi al momento del rapimento. Il maresciallo dei carabinieri Luciano Pironi e il giornalista Renato Farina, diversamente coinvolti, hanno patteggiato la pena, mentre altri funzionari, per i quali era stata chiesta l'archiviazione, sono stati successivamente rinviati a giudizio.

Due giorni prima del rinvio a giudizio, l'allora presidente del Consiglio Romano Prodi ha promosso un ricorso per conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale, sostenendo che la Procura di Milano avesse invaso i poteri attribuiti al governo, apprendendo documenti coperti da segreto di stato e ottenendo l'autorizzazione a intercettare utenze telefoniche del Sismi. Un ricorso simile è stato presentato nei confronti del Giudice per le indagini preliminari. Nei due ricorsi si chiede rispettivamente l'annullamento della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone il giudizio. Procedimento analogo e opposto è stato promosso nei confronti del governo dalla Procura.

L'8 giugno 2007 si è aperto il processo penale, ma dopo pochi giorni il giudice ha deciso di sospenderlo in attesa della decisione della Corte costituzionale, così accogliendo una richiesta presentata da Pollari e dagli altri imputati. La sospensione, non obbligatoria, è stata motivata con ragioni di economia processuale, in considerazione della potenziale inutilizzabilità di alcune prove a seguito del giudizio costituzionale. La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili i ricorsi e ha fissato un'udienza per gennaio 2008, poi rinviata all'ultimo momento apparentemente in vista di una possibile "risoluzione concordata del conflitto" tra Governo e Procura, sinora non realizzatasi. In seguito, l'udienza di discussione dei tre citati ricorsi innanzi alla Corte Costituzionale è stata fissata per l'8 luglio 2008.

Il 19 marzo 2008 il giudice di Milano ha deciso che il processo per il rapimento di Abu Omar dovesse ripartire. Il riavvio del processo agli agenti statunitensi e italiani accusati di coinvolgimento in questo paradigmatico caso di rendition rappresenta un importante passo in avanti per l'accertamento della verità e delle responsabilità. Il 13 maggio 2008 si è tenuta un'udienza nel corso della quale è stata ascoltata la moglie di Abu Omar, Nabila Ghali e il giudice ha ammesso a testimoniare Romano Prodi e Silvio Berlusconi. La prossima udienza è prevista per il 28 maggio.

Gli imputati statunitensi sono tutti contumaci e il ministro della Giustizia durante la XV Legislatura, Clemente Mastella, non ha mai risposto alla richiesta della Procura di Milano di inoltrare al Governo Usa le richieste di estradizione dei 26 agenti, nonostante sollecitazioni giuntegli in tal senso dal Parlamento europeo, dal Consiglio d'Europa e da AI, organizzazione i cui rappresentanti il ministro non ha voluto incontrare.

Con la citata risoluzione del 14 febbraio 2007, il Parlamento europeo ha deplorato "il fatto che il generale Nicolò Pollari, già direttore del Sismi, abbia nascosto la verità" alla Commissione e si è rammaricato che il rapimento di Abu Omar abbia messo a rischio le indagini sulla rete terroristica a cui Abu Omar era collegato. Dal canto suo, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (Pace) ha criticato la scelta del governo Italiano di ostacolare la ricerca della verità sul caso di Abu Omar attraverso l'invocazione del segreto di stato e ha stigmatizzato la scelta dell'Italia di preservare "ad ogni costo" le relazioni con gli Usa.

Il Parlamento europeo ha inoltre deplorato il coinvolgimento dell'Italia nella rendition di Maher Arar, cittadino canadese di origini siriane condotto in Siria con un volo della Cia per la Giordania, che fece scalo a Ciampino l'8 ottobre del 2002. In Siria Maher Arar è stato detenuto per un anno e ripetutamente torturato; diverso tempo dopo la liberazione e il ritorno in Canada ha ottenuto le scuse e un risarcimento dal suo governo per quanto accadutogli. Da informazioni pubblicamente disponibili, sul caso risulta essere in corso un'indagine della procura di Roma.

Oggetto dell'indagine del Parlamento europeo anche il caso di Abou El Kassim Britel, cittadino italiano arrestato in Pakistan nel marzo 2002 dalla polizia pakistana, interrogato da agenti statunitensi e pakistani e successivamente consegnato alle autorità marocchine. Secondo la documentazione trasmessa alla Commissione dall'avvocato di Britel, dopo l'arresto il ministero dell'Interno italiano era stato in "costante cooperazione" con i servizi segreti stranieri. Abou El Kassim Britel è tuttora detenuto in Marocco. Le indagini della magistratura italiana nei suoi confronti si sono chiuse senza alcuna incriminazione.

Gli effetti delle espulsioni antiterrorismo del "decreto Pisanu" e l'intervento della Corte europea dei diritti umani

Nonostante le richieste del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (Conclusioni del 18 maggio 2007), l'Italia ha mantenuto pressoché immutate le norme sull'espulsione contenute dalla Legge 155/05, il cosiddetto "decreto Pisanu", riguardante misure urgenti per la lotta al terrorismo. Esse prevedono l'espulsione di migranti regolari e irregolari sulla base di una vaga definizione del rischio da essi posto ( "fondati motivi di ritenere" che la loro "permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche") e senza tutela efficace contro il rimpatrio forzato in paesi in cui rischiano la tortura e altre violazioni gravi. La legge non presuppone necessariamente che la persona espulsa sia stata condannata o accusata di un reato - di natura terroristica o meno - né che l'espulsione venga convalidata da un giudice. Il ricorso contro l'espulsione non ne sospende l'esecuzione.

Il 28 febbraio 2008 la Corte europea dei diritti umani ha definitivamente annullato il provvedimento di espulsione nei confronti del cittadino tunisino Nassim Saadi, emesso dall'Italia nell'agosto 2006 sulla base del "decreto Pisanu" e allora sospeso in via cautelare e urgente dalla stessa Corte. Quest'ultima, nel definire il caso, ha ritenuto che dai rapporti di AI, ritenuti credibili, coerenti e corroborati da numerose altre fonti, emerge "un rischio concreto" che Saadi sarebbe sottoposto a tortura o ad maltrattamenti in caso di rientro in Tunisia. L'allora ministro Mastella si era recato nel maggio 2007 in Tunisia per chiedere c.d. "assicurazioni diplomatiche" che Nassim Saadi non sarebbe stato sottoposto a tortura e maltrattamenti, "assicurazioni" poi prodotte nel procedimento a suffragio della richiesta alla Corte di non annullare l'espulsione. L'Italia aveva inoltre sostenuto, con il supporto del Regno Unito intervenuto nel giudizio, che nella valutazione sull'espulsione il rischio corso dalla persona di essere sottoposta a tortura e altri abusi dovesse essere controbilanciato dal rischio posto da questa. La Corte ha rigettato questa teoria del "bilanciamento" e ha riaffermato la natura assoluta del divieto di tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, principio messo a rischio (nella sua stessa essenza e non soltanto rispetto al tema dell'espulsione) dalle tesi sostenute dall'Italia.

Nonostante ripetute richieste di AI, l'allora ministro dell'Interno Amato non ha annullato l'espulsione da lui emessa nei confronti di Cherif Foued Ben Fitouri, rimpatriato in Tunisia il 4 gennaio 2007 sulla base delle norme del pacchetto Pisanu. Dopo l'arrivo in Tunisia Ben Fitouri, che ha moglie italiana e tre bambine, è stato trattenuto in detenzione segreta per oltre 12 giorni e in seguito incarcerato e sottoposto a processo sulla base della legge antiterrorismo tunisina. Secondo informazioni ricevute da AI egli è stato sottoposto a tortura e maltrattamenti mentre sua moglie e le sue bambine, in Italia, hanno scontato gli effetti della sua prolungata assenza.

Rom e migranti: discriminazione, xenofobia e provvedimenti sulla "sicurezza"

Nel corso del 2007 e della prima metà del 2008, diversi esponenti politici locali e nazionali hanno usato un linguaggio discriminatorio nei confronti dei rom e dei migranti. Nello stesso periodo si sono susseguiti provvedimenti dichiaratamente a protezione della "sicurezza", in realtà prevalentemente orientati a facilitare l'espulsione dei cittadini dell'UE e dei migranti irregolari.

Discriminazione e xenofobia

Il 31 ottobre 2007 è stata aggredita e uccisa a Roma una donna di 47 anni, Giovanna Reggiani; dell'omicidio è accusato un cittadino rumeno, da alcuni ritenuto appartenere alla minoranza rom. All'episodio sono subito seguite dichiarazioni di esponenti politici locali e nazionali che alludevano a responsabilità collettive di minoranze e gruppi di migranti.

Nelle ore immediatamente successive al crimine, gli organi di informazione hanno riportato le dichiarazioni del segretario del Partito Democratico e allora sindaco di Roma Walter Veltroni, secondo le quali "prima dell'ingresso della Romania nell'Unione europea, Roma era la metropoli più sicura del mondo", e ancora: "Se si sta in Europa bisogna starci a certe regole: la prima non può essere quella di aprire i boccaporti e mandare migliaia di persone da un Paese europeo all'altro".

In un'intervista rilasciata il 4 novembre successivo l'on. Gianfranco Fini, presidente di Alleanza Nazionale, ha dichiarato: "C'è chi non accetta di integrarsi, perché non accetta i valori e i principi della società in cui risiede" e ha così risposto alla giornalista che gli chiedeva se si stesse riferendo ai rom: "Sì, mi chiedo come sia possibile integrare chi considera pressoché lecito e non immorale il furto, il non lavorare perché devono essere le donne a farlo magari prostituendosi, e non si fa scrupolo di rapire bambini o di generare figli per destinarli all'accattonaggio. Parlare di integrazione per chi ha una 'cultura' di questo tipo non ha senso". Negli stessi giorni sono state riportate queste dichiarazioni del prefetto di Roma Carlo Mosca: "Firmerò subito i primi decreti di espulsione. La linea dura è necessaria perché di fronte a delle bestie non si può che rispondere con la massima severità".

Il 6 novembre 2007 l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha espresso preoccupazione per il clima di intolleranza manifestatosi in quei giorni e per lo "stato di tensione nei confronti degli stranieri alimentato negli anni anche da risposte demagogiche alle tematiche dell'immigrazione messe in atto dalla politica"; il giorno seguente il presidente dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha messo in guardia l'Italia circa il rischio di una "caccia alle streghe" contro i cittadini rumeni e in particolare contro i rom.

Nei mesi successivi sono state riferite molteplici dichiarazioni analoghe di esponenti dei diversi schieramenti politici di livello nazionale o locale.

Nel dicembre 2007 gli organi di stampa hanno riportato le affermazioni di un consigliere comunale del Comune di Treviso che invocava "metodi da SS per gli immigrati che recano disturbo", mentre più di recente un deputato della Lega Nord ha affermato: "Storicamente contro le invasioni ogni Stato ha sempre utilizzato il proprio esercito per difendersi. Oggi la storia si ripete: siamo sotto un diverso tipo di invasione, attuata con metodi diversi, ma per gli stessi motivi, ovvero soggiogarci a leggi altrui o depredare i nostri beni".

Nel corso del 2007 e sino al maggio 2008 si sono verificati attacchi violenti ad accampamenti rom in diverse città, tra cui Appignano - Ascoli Piceno (aprile 2007), Roma (settembre 2007), Torino (ottobre 2007) e Ponticelli - Napoli (maggio 2008). Sono state anche segnalate dagli organi di informazione diverse aggressioni ai danni di immigrati romeni e di altre nazionalità, tra cui i recentissimi episodi che hanno colpito a Roma, nel quartiere Pigneto, cittadini del Bangladesh.

A marzo 2008, il Comitato delle Nazioni Unte per l'eliminazione della discriminazione razziale (CERD/C/ITA/CO/15) ha espresso preoccupazione per le condizioni di "segregazione di fatto" in cui si trovano i rom in Italia, privi di accesso ai servizi essenziali, e per i discorsi di odio dei politici. Il Comitato ha evidenziato gli stereotipi riguardanti i rom diffusi nell'opinione pubblica e presso i Comuni, i quali danno origine a ordinanze discriminatorie. Preoccupazione è stata espressa anche rispetto alla situazione dei migranti irregolari.

Il 16 maggio 2008, a seguito dei citati attacchi incendiari avvenuti a Ponticelli, l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce ha espresso preoccupazione per l'aumento della retorica anti-rom e anti-immigrati verificatasi negli ultimi mesi e ha ricordato che la ricorrente stigmatizzazione di questi gruppi aumenta le probabilità che si verifichino violenze.

Il 20 maggio 2008 la European Roma Policy Coalition, di cui AI fa parte, ha chiesto con urgenza alle autorità italiane di agire contro l'uso di dichiarazioni anti-rom da parte media e dei politici italiani e ha affermato che l'Italia ha alimentato il razzismo attraverso la retorica anti-rom.

Provvedimenti sulla "sicurezza"

Nonostante le indagini sui centri di detenzione per migranti da parte del ministero dell'Interno, all'esito delle quali erano state avanzate ipotesi di ridimensionamento dell'uso della detenzione, le modifiche intervenute durante la XV legislatura in materia di soggiorno ed espulsione di cittadini stranieri non si sono occupate di riavvicinare la normativa agli standard internazionali sui diritti umani, ma hanno piuttosto introdotto restrizioni dichiaratamente miranti alla "sicurezza". Il disegno di legge Amato - Ferrero si è arenato in Parlamento dopo poche sedute, lasciando la legge c.d. Bossi-Fini pressoché immutata nei suoi aspetti più preoccupanti, come l'utilizzo generalizzato della detenzione a scopo di espulsione senza la previsione di alcuna alternativa.

Il decreto legislativo 32 del 2 marzo 2008 ha introdotto restrizioni al soggiorno dei cittadini Ue, ampliando i casi di espulsione. Queste modifiche sono l'esito dell'emanazione consecutiva di più atti normativi, a partire dal decreto legge 181 del 2 novembre 2007 adottato dal Consiglio dei ministri riunitosi in via straordinaria a seguito dell'omicidio di Giovanna Reggiani, decreto poi decaduto e "reiterato" con modifiche a dicembre 2007. Entrambi i decreti sono stati oggetto di critiche da parte di AI e di altre organizzazioni non governative per la forte indeterminatezza dei nuovi motivi di espulsione dei cittadini Ue, in particolare i "motivi imperativi di pubblica sicurezza", lasciati scarsamente definiti nella norma e quindi fonte di un'eccessiva discrezionalità delle autorità chiamate ad applicarle, tra cui i prefetti. I contenuti della decretazione d'urgenza sono infine confluiti nel citato D.Lgs. 32/2008 che, migliorando il testo originario, ha introdotto la necessità di convalida del giudice ordinario per tutti i provvedimenti di espulsione. Restano non ancorati a parametri legali certi i presupposti dell'espulsione.
Nel corso del primo consiglio dei Ministri del 21 maggio 2008 il governo Berlusconi in carica ha approvato un insieme di modifiche e proposte normative, anch'esse nominalmente riferite alla "sicurezza", che prevedono pesanti restrizioni e nuove figure di reato le quali colpiscono soprattutto gli immigrati, direttamente o indirettamente.

Il giorno stesso il ministro dell'interno Maroni ha così potuto annunciare l'introduzione del "reato di immigrazione clandestina, con una procedura rapida di giudizio e di espulsione (...) e il trattenimento nei CPT fino a 18 mesi, anticipando una direttiva europea" attualmente in discussione.
Le nuove misure sono state accompagnate da diverse dichiarazioni in linea con la tendenza segnalata a stigmatizzare interi gruppi di persone, in particolare i rom e i migranti irregolari; il leader dell'opposizione Walter Veltroni ha dichiarato che queste misure in larga parte coincidono con quelle pianificate dalla precedente maggioranza di governo.

Il cosiddetto "pacchetto sicurezza" più precisamente include:

  • un decreto legge che punisce con la reclusione e la confisca del bene chi affitta un immobile a un immigrato irregolare, attribuisce più ampi poteri ai sindaci in materia di "ordine e sicurezza pubblica" e rende una circostanza aggravante di qualsiasi reato quella di essere stato commesso da un immigrato irregolare;
  • un disegno di legge che propone di considerare reato l'ingresso e il soggiorno irregolare in Italia e intende portare a 18 mesi il tempo massimo della detenzione nei centri a scopo di espulsione (ora di 60 giorni);
  • una bozza di decreto legislativo che prevede la cancellazione dell'effetto sospensivo dell'espulsione, recentemente attribuito al ricorso contro lo status di rifugiato ; altre due bozze di decreti legislativi che inaspriscono le norme relative ai ricongiungimenti familiari e al soggiorno dei cittadini Ue.

Hanno espresso allarme per la riforma normativa molte organizzazioni non governative italiane e internazionali e lo stesso Unhcr, il quale ha sottolineato come i richiedenti asilo, spesso costretti dalla mancanza di alternative a fare ingresso irregolarmente nei paesi dove cercano protezione, potrebbero venire accusati di aver commesso un reato.
AI è estremamente allarmata per il contenuto di queste misure, per le modalità affrettate e propagandistiche della loro emanazione e per il clima di discriminazione che le ha precedute e che le accompagna. L'incriminazione dei richiedenti asilo per ingresso irregolare è peraltro espressamente escluso dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.

Diritti dei rifugiati e dei minori migranti

Miglioramenti legislativi e rischiosi passi indietro

Alcuni miglioramenti sono stati introdotti nel 2007 nella normativa e nella prassi in materia di asilo e rispetto ai minori migranti giunti alla frontiera. Essi tuttavia vengono ora messi a rischio dalle proposte di riforma incluse nel citato "pacchetto sicurezza", che intervengono in un quadro ancora privo di una legge organica sull'asilo.

A seguito della chiusura della propria campagna Invisibili a giugno del 2007, che ha raccolto 50.000 firme e si è articolata in oltre 200 iniziative nel corso di 16 mesi, AI ha segnalato i miglioramenti intervenuti relativamente ai minori giunti in Italia via mare. Tra essi la drastica riduzione dei tempi di detenzione dei minori non accompagnati all'arrivo, l'emanazione di regole di identificazione che ancorano l'identificazione al principio di presunzione della minore età in caso di dubbio e la pubblicazione dei dati relativi agli arrivi dei minori via mare, i quali hanno mostrato la loro forte presenza all'interno di quelli che, con gergo militaresco, vengono definiti "sbarchi" di immigrati. Nel 2007 i minori hanno rappresentato oltre il 10,5 % degli arrivi via mare.

Agli inizi del 2008, la materia dell'asilo è stata profondamente modificata con l'entrata in vigore di due decreti legislativi emanati dal Governo a novembre 2007, in attuazione di altrettante direttive Ue, rispettivamente il D. Lgs 251/2007 sulla qualifica di rifugiato entrato in vigore il 19 gennaio 2008 e il D. Lgs. n. 25/2008 sulle procedure di asilo, entrato in vigore il 2 marzo 2008. I due decreti hanno introdotto alcuni importanti miglioramenti, tra cui l'effetto sospensivo dell'espulsione determinato dalla presentazione del ricorso contro il diniego della domanda di asilo (effetto sin ad allora escluso, con gravi rischi in caso di rimpatrio forzato del richiedente asilo la cui domanda fosse stata erroneamente rigettata in prima istanza).
Come si è detto le modifiche delle norme prospettate nel citato "pacchetto sicurezza" includono la cancellazione dell'effetto sospensivo e quindi rappresenterebbero un pericoloso passo indietro, ripristinando, ad appena tre mesi dall'adozione di nuove norme ancora non applicate, una situazione in cui il richiedente asilo la cui domanda sia respinta in prima istanza rischia di essere rimpatriato senza alcun vaglio sui rischi corsi e quindi in violazione del principio di non-refoulement.
Inoltre, in caso di un generale inasprimento delle norme sulla detenzione, i minori, in particolare se al seguito di genitori irregolari, non sarebbero al riparo dai rischi.

La collaborazione tra Italia e Libia in materia di contrasto all'immigrazione

È proseguita la collaborazione con la Libia in materia di contrasto all'immigrazione irregolare sulla base di accordi segreti e senza che alcuna condizione venisse posta dall'Italia in materia di rispetto dei diritti umani. La Libia non ha ratificato la Convenzione sullo status di rifugiato, non ha una procedura di asilo e si macchia ogni anno di gravi violazioni dei diritti dei rifugiati e dei migranti, tra cui la detenzione arbitraria e le violenze contro i migranti detenuti, comprese le donne. Gli intensi rapporti diplomatici tra i due paesi hanno condotto il 29 dicembre 2007 a un accordo bilaterale che prevede il pattugliamento marittimo congiunto attraverso un nucleo operativo italo-libico a comando libico, per mezzo di sei navi della Guardia di Finanza fornite dall'Italia, senza che venga chiarito cosa debba accadere alle persone, migranti e rifugiati, respinte in mare dalle unità navali.

L'Italia ha ultimato e consegnato al governo libico una struttura a Gharyan destinata, secondo quanto dichiarato dal ministero dell'Interno nel luglio 2007, "a scuola per l'addestramento e la formazione degli allievi agenti della polizia libica, nell'ambito dei rapporti di collaborazione delle forze di polizia", mentre non si hanno notizie precise circa il centro previsto a Kufra e definito dallo stesso ministero dell'Interno un "centro sanitario di frontiera".

La lettera con cui AI chiedeva all'allora ministro Amato chiarimenti circa un'operazione realizzata in Libia con la collaborazione di personale italiano di pubblica sicurezza nei confronti di 190 migranti sudanesi, eritrei, etiopi e di altre nazionalità, tra cu 17 donne e 3 bambini, è rimasta senza risposta.

Con il decreto legge di rifinanziamento delle missioni italiane all'estero, il governo Prodi ha destinato alla collaborazione con la Libia oltre 6 milioni e 200 mila di euro. Il decreto è stato convertito in legge dal Parlamento il 13 marzo 2008.

Commercio di armi e bambini soldato

Sussiste una preoccupante disomogeneità delle norme che regolano le esportazioni di armi da guerra e delle piccole armi ad uso civile.

Il commercio delle armi leggere e di piccolo calibro (fucili, pistole, munizioni ed esplosivi), le più diffuse nei conflitti in cui sono utilizzati bambini come soldati, non rientra nell'ambito della disciplina della Legge 185/1990, che contiene severe disposizioni procedurali per l'esportazione, l'importazione ed il transito di armi ad uso bellico verso paesi terzi, ma è regolamentato dalla Legge 110/1975 la quale, al contrario, non prevede limiti alle esportazioni sulla base dello standard dei diritti umani del paese importatore e del coinvolgimento del paese stesso in una guerra interna o internazionale. È quindi ammesso e possibile che l'Italia venda armi leggere a soggetti privati o a governi di paesi in cui persone con meno di 18 anni partecipano alle ostilità come parte di eserciti o di gruppi armati. Nel gennaio 2008, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha reso pubblico il Rapporto Annuale 2007, destinato all'attenzione del Consiglio di Sicurezza, in cui si conferma il reclutamento e l'utilizzo di bambini soldato in diversi paesi già segnalati nel 2006, tra cui: Burundi, Ciad, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal, Filippine, Uganda e Afghanistan.

Da un'analisi dei dati disponibili si rileva che, tra il 2002 e il 2007, l'Italia ha autorizzato l'esportazione di armi leggere e di piccolo calibro verso soggetti privati o statali delle Filippine per € 7.169.863, in Afghanistan per € 3.189.346, e in Colombia per € 1.027.196, nonché verso soggetti privati o statali, nella Repubblica Democratica del Congo per € 179.582, in Nepal per € 18.321, in Uganda per € 10.088, in Burundi per € 9.017, e in Ciad per € 1.756.

Inoltre, nonostante gli elevati standard sui diritti umani contemplati dalla Legge 185/1990, non sempre le autorizzazioni all'esportazione di armi hanno effettivamente evitato che queste finissero a governi di paesi in cui i bambini vengono utilizzati come soldati. L'Italia, tra il 2002 e il 2006, ha infatti venduto armi alle forze armate delle Filippine per 1,6 milioni di euro e della Colombia per 2,3 milioni di euro.

Tutto ciò avviene in aperto e palese contrasto con gli impegni assunti a livello internazionale: in particolare, in occasione della candidatura italiana a componente del nuovo Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani per il triennio 2007-2010, il governo italiano si è impegnato a tutelare i diritti dell'infanzia, specialmente dei minori coinvolti nei conflitti armati e a settembre 2007 il ministero degli Affari esteri ha presentato uno speciale "Minori soldato una sfida ancora aperta" in cui si evidenziava il ruolo dell'Italia nel contrastare l'utilizzo dei bambini soldato.
Ultimo aggiornamento ( Venerdì 08 Agosto 2008 07:52 )
 
 
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